LA PRESENZA DELLO PSICOLOGO ALL’INTERNO DELLA STRUTTURA
“L’Alzheimer è come quando da un libro strappiamo una pagina, poi un’altra e un’altra ancora. Finché non ci sono più pagine e resta soltanto la copertina”.
Crediamo che questa dolorosissima frase possa descrivere meglio di qualsiasi testo erudito cosa prova chi si trova a dover entrare in contatto con il mondo creato dalla malattia di Alzheimer, indicata con l’acronimo “AD” dall’inglese “Alzheimer’s Diseases”. Un mondo che lentamente sfuma sempre più fino a svanire in una nebbia indistinta e pesantemente immobilizzante, un mondo che inesorabilmente perde le sue connotazioni di continuità emotiva e logica per ridursi a piccoli frammenti di quella meravigliosa unità che è la persona umana. Sembrerebbe quasi inutile tentare di cercare risposte e soluzioni che in qualche maniera possono tentare di ribaltare quello che si prospetta come un lungo tunnel in discesa, fino al buio più totale.
Eppure…eppure se noi “consideriamo il malato di AD come una persona a tutti gli effetti fino all’ultimo momento della sua esistenza non possiamo non tentare tutte le strade possibili affinché la dignità e la precipua umanità della stessa vengano non solo salvaguardate, ma custodite gelosamente come un’immensa risorsa, ecco che improvvisamente quella copertina che sembra rimanere vuota si riempie di ulteriori significati, di esperienza vissuta non solo rispetto a ciò che la persona era, ma anche, e soprattutto, rispetto a ciò che una persona è di fronte a se stessa e di fronte a tutta la rete di relazioni sociali nelle quali è inserita. I sintomi iniziali sono spesso attribuiti all’invecchiamento, allo stress oppure alla depressione. Il paziente di solito presenta modificazioni del carattere, è meno interessato ai propri hobby o al proprio lavoro, oppure è ripetitivo. Talvolta l’inizio della malattia è contrassegnato dalla sospettosità nei confronti delle altre persone, accusate di sottrarre oggetti o cose che il malato non sa ritrovare. Questi cambiamenti che avvengono nel paziente AD sono dovuti ai deficit cognitivi che presentano le varie funzioni cognitive (attenzione, percezione, memoria, linguaggio, il movimento e le emozioni). Come si vede è la personalità nella sua interezza che viene investita dal deterioramento delle singole funzioni cognitive; e tutto questo non può non avere una ricaduta sull’ambiente nel quale la persona era inserita ed aveva costruito la sua rete di relazioni sociali ed affettive. A questo riguardo lo psicologo da un significativo apporto a tutto l’immenso lavoro che viene svolto sia dai caregiver (terapisti occupazionali, fisioterapisti, operatori sociali, ecc.), sia dagli altri operatori coinvolti nella equipe della Residenza Alzheimer “Non ti scordar di me”, che dai familiari, che si trovano a dover far fronte al difficilissimo carico emotivo per un periodo di tempo che può arrivare ai venti anni. “A volte mi auguro che muoia così sarà tutto finito, sembra come se stesse morendo un poco alla volta, giorno dopo giorno. Quando succede qualcosa di nuovo penso di non poter più sopportare. Poi mi ci abituo e succede qualcos’altro. E continuo a sperare in un nuovo dottore, in un altro trattamento, magari in un miracolo. Mi sembra di stare su di un mulino di emozioni che gira in tondo e mi sta consumando lentamente”. Ci sembra importante sottolineare come sia necessaria una grande sinergia per mettere in atto un progetto che sia non solo mdi mera assistenza, ma anche di promozione e di mantenimento di tutte le capacità residue delle persone affette da AD, una sinergia che evidentemente veda compartecipi tutte le componenti che entrano a far parte di questo universo. E quindi non soltanto attenzione rivolta al paziente, ma anche alla sua famiglia e a chi opera quotidianamente a contatto con queste persone (neurologi, fisioterapisti, terapisti occupazionali, cuochi, ausiliari, operatori sociali.), perché soltanto attraverso una migliore comunicazione ed una condivisione dei propri vissuti si può pensare di ottimizzare la nostra risposta be quindi la qualità della vita di chi lentamente cade nell’oblio.
Ognuno di noi può essere una di quelle pagina strappate e concorrere alla ricostruzione del libro.
Questo nostro breve contributo non vuole, né potrebbe del resto, essere esaustivo di tutta la complessità di fronte alla quale l’AD ci pone. Più semplicemente intende condividere l’esperienza di confronto che abbiamo e stiamo tuttora svolgendo al “Non ti scordar di me” tra i membri dello staff, da una parte, e le famiglie dei pazienti dall’altra.
Negli incontri con lo staff abbiamo provato a lavorare sulle emozioni che il contatto quotidiano con queste persone suscitano in ognuno, sulle motivazioni più profonde e, diremmo, “storiche” che hanno portato a scegliere questo tipo di professione e su quale possa essere il rapporto che ognuno di noi ha con la propria memoria che tipo di utilizzo ne fa come mappa di orientamento nel mondo, quale sia il canale privilegiato nel proprio ricordare e creare l’unità dell’esperienza.
Per far questo abbiamo utilizzato sia materiale cartaceo, attraverso una griglia di autovalutazione biografica nella quale si mettevano in relazione eventi ed emozioni significativi dell’esistenza, avvenuti nell’arco dell’intera vita, sia attraverso il riferimento a proprie personali esperienze nell’ambito lavorativo che potessero essere condivise dagli e con gli altri, in modo da creare una più ampia consapevolezza di se ed una sempre maggiore coesione di gruppo.
Abbiamo inoltre proposto la rappresentazione grafica della propria famiglia interna (quella che ognuno porta dentro di se e che influenza non sempre consapevolmente le nostre scelte, sulla base dell’impronta avuta dalla nostra famiglia di origine) e dal proprio ruolo per poterla mettere a confronto con la rappresentazione del proprio ruolo all’interno del gruppo di lavoro. Gli incontri con i familiari dimostrano quadri ed atteggiamenti psichici differenti propri della loro personalità, ma ciò che li rende molto simili è il vissuto di sentimenti di perdita che costantemente sono costretti a sperimentare quotidianamente.
L’Alzheimer determina, con il suo inesorabile percorso, la perdita della persona mentre è viva. E’ un’anticipazione della perdita, E. Kubler – Ross, pioniera nel campo dell’accompagnamento dei morenti, individua cinque fasi psicologiche che il malato attraversa avvicinandosi alla morte: la negazione, la collera, la fase delle trattative, la fase della depressione e la fase dell’accettazione. Allo stesso modo i familiari di un malato terminale o comunque affetto da una malattia cronico-degenerativa segue un simile percorso per cercare di accettare la malattia.
Nel corso degli incontri con le famiglie abbiamo potuto osservare che molte delle emozioni presenti nell’animo di chi ha un proprio caro colpito da AD (senso di colpa, rabbia, impotenza, depressione etc.) possono trovare nel contesto del gruppo di confronto la possibilità di essere meglio espresse ed elaborate.
Ad es. durante un incontro la possibilità di potersi confrontare tra differenti famiglie, unite dalla medesima, dolorosa esperienza, permette di aprire nuovi spunti di considerazione, ovvero una risposta diversa rispetto a quella che si erano sempre dati. Tutto ciò ha reso tali acquisizioni meno ansiogene ed ha invogliato i partecipanti a porre, non soltanto a se stessi, ma anche agli altri più domande, alla ricerca di risposte che seguissero una linea di evoluzione ed elaborazione di un lutto continuamente in fieri.
Sulla base degli incontri effettuati, ci sembra di poter dire che questi sono stati di notevole interesse sia per i conduttori di gruppo che per i partecipanti. Riteniamo, anche dalle condivisioni finali, che tali incontri abbiano svolto una funzione di supporto e di stimolo, cosicché nei prossimi incontri sarà possibile un lavoro più particolareggiato ed approfondito.
Ci sembra interessante porre l’accento sulla particolare “specularità” tra ciò che vivono i familiari e quello che, sia pure ad un livello di profondità ed intensità diverso, vivono gli operatori che quotidianamente si prendono cura dei pazienti con AD; di fronte alla perdita progressiva ed inesorabile del proprio intelletto nel corso della quale però la persona continua ad essere “Persona”, è fondamentale il come ci si pone in qualità di operatori. In tal senso, il modo di porsi di fronte al malato dello staff è già una risposta ed un aiuto a chi si sente schiacciato sotto il peso di questa perdita.
La prima e più importante risposta è nel contatto, sia esso visivo, tattile, uditivo e di qualsivoglia altra natura. Perché dove il contatto esiste, la malattia viene elaborata in maniera più serena e lo stesso paziente può trarne benefici, in termini di mantenimento delle proprie capacità residue. E’ quindi parte integrante del nostro progetto di intervento proporre degli incontri tra famiglie e personale, cosicché i poli “protesici” di questo universo possano conoscersi e condividere al di là dei ruoli che essi rivestono all’inizio della relazione.
Un’ultima, piccola, grande cosa: Chi scrive si sente enormemente grato verso chiunque gli abbia permesso di entrare a conoscere questo silenzio e poco conosciuto angolo dell’animo umano. L’esperienza che viviamo ogni volta che ci troviamo al “Non ti scordar di me” è qualcosa che ci arricchisce non solo professionalmente, ma soprattutto umanamente.
Di tutto ciò vogliamo quindi ringraziare Vera, la Dr.ssa Parnetti, il personale tutto, i familiari e le meravigliose persone che ci insegnano che la dignità umana esiste al di là di qualsiasi barriera possa frapporsi tra noi e gli altri.
Il linguaggio dell’emozione non ha bisogno di clamore o di significati precisi e logici; esso spesso viaggia sulle ali di un sorriso, di uno sguardo, di un silenzioso, reciproco scambio.
Dott. Fabrizio Proietti Gaffi - Psicologo
Dott.ssa Chieti Della Fazia - Psicologo
Pubblicato il: 18-09-2015 - Categoria : News
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